Titoli di Stato. Risk free! …o no?

Il mese scorso su La Repubblica (Affari e Finanza) è comparso un interessante articolo di Maurizio Mazziero intitolato “Con le clausole di azione collettiva a rischio anche titoli di Stato e bond” che sembra essere stato ignorato anche dai più attenti addetti ai lavori.

L’autore asserisce che, dopo la nazionalizzazione della banca olandese SNS (e l’azzeramento del capitale subordinato degli obbligazionisti), le obbligazioni bancarie non più da considerare sicure come del resto neppure lo possono più essere i soldi depositati nei conti correnti dopo il prelievo forzoso effettuato su quelli ciprioti.

Ora anche l’investimento nei titoli dello Stato perde le caratteristiche di sicurezza, almeno così come è stata intesa sinora. A partire da quest’anno, evidenzia l’autore, i risparmiatori che hanno investito in titoli di Stato potrebbero essere soggetti a una decurtazione di capitale esattamente come è successo in Grecia e senza nemmeno saper chi ringraziare. Questo è l’effetto di un decreto, il 96717 del Ministero dell’Economia e delle Finanze, che non fa altro che riprendere una norma del Trattato di Istituzione del Meccanismo Europeo di Stabilità (ESM) sottoscritto dai 17 paesi dell’Eurozona.

In buona sostanza questo decreto dice che dal 1° gennaio 2013 tutte le emissioni di titoli di Stato italiani con durata superiore a un anno sono soggetti a delle Clausole di Azione Collettiva (CACs). Queste clausole prevedono che i termini e le condizioni dei titoli di Stato possono essere modificati mediante un accordo tra l’Emittente (lo Stato o Ente collegato) e una percentuale di detentori (gli investitori). Le percentuali sono a seconda dei casi 75%, 66 e 2/3%, e in alcune occasioni 50%; una volta raggiunte tali percentuali le modifiche di termini e condizioni si applicano a tutti i detentori.

Mazziero ci dà una precisa idea di ciò che significa attraverso alcuni esempi concreti.

La data dei pagamenti di cedole o rimborsi. Ad esempio: il titolo scade nel 2017? La scadenza viene spostata al 2022. Slittamento possibile anche per le cedole periodiche.

La riduzione dei pagamenti e del rimborso. Ad esempio: il titolo valeva 1.000 euro? Ne verranno rimborsati solo 500. Stesso discorso per le cedole periodiche.

Il cambio del metodo per calcolare i pagamenti. Ad esempio: il titolo dava un rendimento connesso all’inflazione? Verrà corrisposta solo una frazione della rivalutazione derivante dal variare del costo della vita, oppure non verrà corrisposta affatto.

Il cambio della valuta e del luogo di pagamento. Ad esempio: il titolo era emesso in euro? Può essere rimborsato in lire, naturalmente nemmeno il valore di cambio costituisce una certezza.

La modifica della seniority. In pratica l’ordine di preferenza con cui il titolo viene rimborsato rispetto ad altri creditori.

Il decreto si addentra in una serie di tecnicalità ma, in buona sostanza, tutti i titoli di Stato con durata superiore a un anno emessi a partire dal 2013 possono essere modificati a piacere al fine di rispondere alle necessità di cassa dell’emittente. Le percentuali di accordo da raggiungere non sono in genere un problema, l’abbiamo visto in Grecia, inoltre dopo il lancio delle operazioni di rifinanziamento della Bce (Ltrp) in cui vengono prestati denari alle banche a tasso agevolato, queste sono state incoraggiate a impegnare buona parte di tali somme in titoli di Stato della propria nazione.

Si è così verificato un lento spostamento della composizione degli investitori verso una detenzione nazionale dei propri titoli di Stato, diminuendo nel contempo l’effetto sistemico nel caso di una ristrutturazione (default) del debito. In una situazione a regime di questo tipo, in cui le banche nazionali potrebbero diventare le principali detentrici del debito di uno Stato, a loro volta le banche stesse in caso di difficoltà verrebbero salvate dallo Stato con i soldi della collettività. È facile a tal punto comprendere che in occorrenza di un default la “moral suasion” dello Stato potrebbe facilitare il raggiungimento delle percentuali necessarie a far scattare le Clausole di Azione Collettiva rendendo obbligatorie per tutti le modifiche delle condizioni di pagamento dei titoli di Stato.

Perché dunque tutto ciò è stato sinora pressoché ignorato dagli organi di informazione? Non può essere che la ragione stia nel cambio sostanziale delle sicurezze che l’investimento in titoli di Stato aveva sin qui garantito ai risparmiatori? Non potrebbe essere anche che, in un anno nel quale si dovrà rinnovare una vera e propria “montagna di debito” (all’incirca 200 M.di per il corrente anno), meglio sarebbe non creare dubbi sulla capacità di tenere fede al patto fiduciario tra Stato prenditore e risparmiatori datori di credito?

Sarà anche una mia impressione ma temo proprio che i risparmiatori italiani, storicamente grandi sottoscrittori del debito nazionale, potrebbero improvvisamente perdere l’appetito di fronte a un piatto meno succulento di prima e ciò creerebbe sicuramente delle forti tensioni sul rifinanziamento e sul mercato, proprio in una fase di grandi difficoltà nella gestione del paese che nei prossimi mesi dovrà tentare di riagganciare una qualche ripresa per togliersi dalla palude recessiva nella quale è imprigionato.

Meno male però che queste informazioni comunque circolano e sono certo che i risparmiatori italiani potranno avvalersi della capacità di valutazione dei loro consulenti nella costruzione dei propri asset di portafoglio anche alla luce di queste “novità“. Nessuno conosce il futuro ma con un pizzico di buon senso si può sempre pensare di applicare il vecchio adagio che recita “Prevenire è meglio di curare” e i più avveduti consulenti finanziari ne terranno sicuramente conto.