Quanto è difficile parlare di pianificazione finanziaria. Se poi si parla di previdenza… (PART I)

Immagine del disegno di un bambino della favola La Cicala e la Formica

Eravamo negli anni ’80 quando iniziai ad interessarmi di previdenza complementare. A quell’epoca lavoravo in banca e lo spunto iniziale mi fu dato dal mio direttore di allora che mi chiese, visto che stavo studiando economia all’Università, cosa ne pensassi dell’ipotesi, formulata dalla stampa il quel periodo, di mettere un tetto alle prestazioni pensionistiche pubbliche dato che il sistema, a suo avviso, non avrebbe retto ancora a lungo.

La questione mi attrasse e approfondii la mia conoscenza delle dinamiche demografiche, studiai la struttura del patto generazionale su cui si fondava il sistema italiano e iniziai un percorso conoscitivo dei sistemi di previdenza complementare dei paesi sviluppati; ne convennii che la domanda postami aveva solidi fondamenti logici e mi addentrai così profondamente nella materia tanto da impostare la mia tesi di laurea sui fondi pensione (che allora nemmeno esistevano nel nostro paese salvo qualche iniziativa spontaneamente realizzata all’interno di qualche istituto bancario e di alcune aziende di grandi dimensioni).

Quello che mi colpì, quando iniziai la mia attività di consulente finanziario (tramutatasi dal ’91 per obbligo di legge in quella di promotore) era la scarsa conoscenza di questa problematica fra i cittadini, fatto comprensibile dato l’assoluto silenzio che le pubbliche autorità mantenevano sull’argomento pur nella piena consapevolezza della sua importanza, ma ancor di più non mi spiegavo l’enorme difficoltà di rendere edotti del problema i miei clienti.

A parte quei pochi illuminati a cui riuscivo a trasmettere la mia passione o (raramente) a qualche altro lungimirante e razionale di suo, la mia attività in questo comparto non si sviluppava come mi ero immaginato pur essendo, come si diceva allora, un buon “collocatore di previdenza“.

Mi posi il problema che qualcosa in me non funzionasse ma ero ben preparato, spiegavo per filo e per segno ai miei clienti i benefici di una seria pianificazione previdenziale, le mie proposte erano accuratamente misurate affinché il rapporto costi/benefici non fosse negativo per i potenziali fruitori. Eppure ciò non accadeva quando presentavo soluzioni finanziarie, quando costruivo asset di investimento, ecc…, dunque il problema stava da un’altra parte.

Qualche anno dopo iniziò una serie di interventi legislativi che in appena tre lustri andarono a sgretolare l’impianto previdenziale pubblico; fu un vero e proprio terremoto con gravi conseguenze per il futuro benessere dei lavoratori ma la situazione ancora non mutava. Questi interventi, per i miei clienti, avrebbero manifestato la loro efficacia nei confronti di altri lavoratori ma loro ne sarebbero stati solo sfiorati e, cosa ancor più strana, anche i miei colleghi vivevano la mia stessa esperienza.

Oggi mi è più chiaro il perché. È strana infatti la mente umana, che sovente ci gioca dei brutti scherzi. Sappiamo perfettamente che fumare danneggia il nostro organismo, che gli eccessi a tavola portano ad una maggiore vulnerabilità nei confronti delle malattie cardiovascolari, che la guida imprudente porta ad assumere rischi pericolosi e talora mortali ma chissà perché queste cose accadono solo agli altri e la maggior parte di noi pigramente conserva queste sconsiderate abitudini.

Aggiornati studi hanno provato anche che la mente umana riconosce il rischio nelle componenti della paura e dell’incertezza e lo vediamo costantemente quando i telegiornali ci informano di infauste sedute di borsa con relativi “falò di denaro” a cui gli investitori fanno seguire telefonate piuttosto apprensive o addirittura affollano i saloni delle banche o gli uffici dei promotori per liquidare le loro posizioni: questi sentimenti emergono in forma violenta perché sono incentrati in una visione di breve termine. Il presente perciò tende a valere, per l’essere umano, più del futuro e da qui la difficoltà di accettare e perseguire la pianificazione in campo previdenziale.

Il futuro è lontano, sfumato, quasi estraneo, e nel frattempo la nostra mente è concentrata sul presente o al massimo sul dopodomani e allora si presta attenzione alla sorte dei risparmi investiti su una particolare borsa o in un determinato strumento di investimento e ci sfreghiamo le mani se otteniamo degli ottimi risultati nel breve termine cullandoci che la nostra scelta sia frutto di capacità e oculatezza e ci disperiamo se, all’incontrario, un altro strumento perde valore anche solo dopo solo pochi mesi dall’acquisto immaginando che tale perdita sia l’inizio di un baratro che inghiottirà per sempre i risparmi di una vita.

Il risparmio altro non è che consumo differito nel futuro. Razionalmente si dovrebbe risparmiare quando si gode di un reddito pieno e, al fine di conservare le medesime abitudini di consumo, si utilizzano quei risparmi da vecchi quando il reddito derivante dal percepimento della pensione è decisamente inferiore e insufficiente e, diversamente dal passato, il periodo del pensionamento – nella media statistica – è di gran lunga superiore rispetto alle esperienze da noi vissute attraverso i nostri parenti, amici e conoscenti. Questo periodo durerà venti, trent’anni, o ancor più se godremo di una salute migliore della media.

Purtroppo questo “mediamente” lungo periodo andrà gestito sia che la salute fisica che quella mentale siano costantemente al massimo dell’efficienza, sia che purtroppo qualche malanno segni pesantemente quella nostra porzione di vita.

Tornando alle riforme citate, tra cui il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo, non siamo ancora del tutto consapevoli che queste modifiche abbiano aumentato l’importanza della pianificazione finanziaria ai fini pensionistici e che, di conseguenza, sia notevolmente accresciuta la responsabilità nella pianificazione del risparmio di lungo periodo sia a livello individuale che familiare.

Un cambiamento si rende dunque necessario al fine di non compromettere la qualità della vita nel periodo in cui saremo più deboli ed esposti, quella che una volta era chiamata la “terza età” a cui oggi si aggiunge l’appendice di una quarta età che null’altro è che il “regalo” dell’allungamento della vita media (come abbiamo appena visto) e, nella mia lunga esperienza, posso senz’altro dire di non aver mai conosciuto alcuno che intendesse viverla fra stenti e privazioni. Almeno in questo siamo tutti d’accordo.

Un po’ di conoscenza del problema pensione a questo punto sarà senza dubbio utile. Sappiamo veramente cosa ci attende nel momento in cui terminerà l’attività lavorativa? Ecco dunque il quadro prospettico.

Oggi il 40% dei lavoratori dipendenti di 25-34 anni ha una retribuzione netta media mensile intorno ai mille euro e, nella maggior parte dei casi, si troveranno ad avere dalla pensione un reddito più basso di quello che avevano a inizio carriera. È quanto emerge da una ricerca realizzata dal Censis in collaborazione con Fondazione Generali. Si stima infatti che il 65% dei giovani occupati dipendenti 25-34enni di oggi avrà una pensione sotto i mille euro, pur con avanzamenti di carriera medi assimilabili a quelli delle generazioni che li hanno preceduti in considerazione dell’abbassamento dei tassi di sostituzione. Tale previsione riguarda i più “fortunati” (si fa per dire), cioè i 3,4 milioni di giovani oggi ben inseriti nel mercato del lavoro, con contratti standard. Poi ci sono 890.000 giovani 25-34enni autonomi o con contratti di collaborazione e quasi 2,3 milioni di Neet, persone che non studiano e nemmeno lavorano.

In assenza di ulteriori modifiche o addirittura peggioramenti del sistema previdenziale i giovani precari di oggi diventeranno gli anziani poveri di domani. Dalla ricerca «L’eccellenza sostenibile nel nuovo welfare. Modelli di risposta top standard ai bisogni delle persone non autosufficienti», realizzata dai citati ricercatori emerge che il 53% dei millennials (i giovani di 18-34 anni) già si rende conto che:

  1. la loro pensione arriverà al massimo al 50% del reddito da lavoro
  2. e che dipenderà dalla capacità che avranno di versare contributi già dal loro ingresso nel mondo lavorativo e con grande continuità.

Ma il 61% dei millennials ha avuto finora una contribuzione pensionistica intermittente, perché sono rimasti spesso senza lavoro o perché hanno lavorato in nero. Per avere pensioni migliori, l’unica soluzione è lavorare fino ad età avanzata, fino allo sfinimento, è stato sottolineato con una punta di ironia.

Ma il mercato del lavoro lo consentirà? Invito, a questo proposito, a leggere l’articolo “Quando il robot ti ruba il posto” pubblicato dal mensile Focus di Febbraio 2015 che cita alcune ricerche europee e statunitensi dalle quali emerge che ci attende un’ulteriore rivoluzione delle modalità di lavoro che potrebbe impattare su masse di lavoratori a ciò impreparati con nefaste conseguenze sui livelli occupazionali e, di conseguenza, con l’aumento delle sacche di povertà.

Già ora l’occupazione dei giovani è crollata. Il Censis evidenzia che siamo passati dal 69,8% di giovani di 25-34 anni occupati nel 2004, pari a 6 milioni, al 59,1% nel 2014 (primi tre trimestri), pari a 4,2 milioni. In dieci anni, ci sono stati 1,8 milioni di occupati in meno tra i giovani, con un crollo di 10,7 punti percentuali. Una perdita di occupazione giovanile che, tradotta in costo sociale, è stata pari a 120 miliardi di euro, cioè un valore pari al Pil di tre Paesi europei come Lussemburgo, Croazia e Lituania messi insieme.

La pianificazione previdenziale dunque non è facile da praticare, soprattutto se non si ha coscienza del problema. Vedremo nella seconda parte come, anche in presenza di una seria presa di coscienza e di una corretta pianificazione, si possano presentare ulteriori difficoltà e quali impatti si possono produrre sulla società in caso di sottovalutazione di tutto questo.